San Carlo è il patrono di Polesine Zibello

Il 4 novembre è festa civile per l'intero territorio
Carlo Borromeo è stato un arcivescovo cattolico e cardinale italiano. È stato canonizzato nel 1610 da papa Paolo V

L’amministrazione comunale ha individuato il 4 novembre di ogni anno come data di celebrazione del Santo Patrono del neonato Comune di Polesine Zibello.

La scelta è avvenuta dopo un’approfondita ricerca storia e a seguito di un confronto con le parrocchie locali, dove è emerso come Carlo Borromeo fosse l’unico Santo ad aver visitato tutte le chiese del territorio ed avervi lasciato un segno del suo passaggio.

Per queste ragioni San Carlo Borromeo appare la figura unificante e maggiormente rappresentativa dell’intero Comune.

Il sacerdote titolare della Parrocchia Santi Vito e Modesto, don Giovanni Fratelli, ha personalmente riferito di aver informato sua Ecc.za Rev.ma il Vescovo Carlo Mazza della scelta dell’amministrazione comunale di indicare San Carlo Borromeo quale Santo Patrono del neonato Comune di Polesine Zibello.

L’individuazione della festività patronale rientra tra gli adempimenti di legge in capo all’Amministrazione a seguito di fusione. Rimangono invariati i patroni ecclesiastici celebrati invece annualmente dalle singole Parrocchie.

Ecco quindi che il 4 novembre, ai soli fini civili, per tutti i luoghi di lavoro rientranti nel territorio di Polesine Zibello, si godrà della sospensione lavorativa, laddove prevista dai contratti collettivi, quale giornata di festa.

L’amministrazione sta ora lavorando alla programmazione della giornata di ricorrenza per questo 2016 che prevedrà la Santa Messa e varie iniziative, che si svilupperanno, anno dopo anno, nella direzione di una sempre maggiore coesione sociale e valorizzazione della nostra identità culturale.

 

San Carlo Borromeo Vescovo

4 novembre

(Arona 1538 – Milano 1584)

 

Nato nel 1538 nella Rocca dei Borromeo sul Lago Maggiore, era il secondo figlio del Conte Giberto e quindi, secondo l'uso delle famiglie nobiliari, fu tonsurato a 12 anni. Studente brillante a Pavia, venne poi chiamato a Roma, dove venne creato cardinale a 22 anni. Fondò a Roma un'Accademia secondo l'uso del tempo, detta delle «Notti Vaticane». Inviato al Concilio di Trento, nel 1563 fu consacrato vescovo e inviato sulla Cattedra di sant'Ambrogio di Milano, una diocesi vastissima che si estendeva su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un territorio che il giovane vescovo visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli. Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Impose ordine all'interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali. Un'opera per la quale fu obiettivo di un fallito attentato. Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati. Appoggiò la nascita di istituti e fondazioni e si dedicò con tutte le forze al ministero episcopale guidato dal suo motto: «Humilitas». Morì a 46 anni, consumato dalla malattia il 3 novembre 1584.

Martirologio Romano: Memoria di san Carlo Borromeo, vescovo, che, fatto cardinale da suo zio il papa Pio IV ed eletto vescovo di Milano, fu in questa sede vero pastore attento alle necessità della Chiesa del suo tempo: indisse sinodi e istituì seminari per provvedere alla formazione del clero, visitò più volte tutto il suo gregge per incoraggiare la crescita della vita cristiana ed emanò molti decreti in ordine alla salvezza delle anime.

Personaggio centrale del 1500, una delle figure più eminenti, la cui opera, specialmente per Milano, ha superato la forza dell’oblio.

Carlo nacque ad Arona, sul Lago Maggiore, nel 1538, in una nobile e ricca famiglia. Il padre, Gilberto, era noto per la profonda religiosità e per la sua generosità verso i poveri. Anche la madre, Margherita, era piissima: purtroppo morì quando Carlo aveva solo nove anni. Questo influsso dei genitori rimarrà fondamentale nella sua educazione.

A 12 anni, Carlo fu nominato commendatario di un’abbazia benedettina di Arona, che fruttava una rendita di 2000 scudi. Una cifra considerevole. Nonostante l’età, però, il ragazzo aveva già le idee chiare.

Infatti, appena ricevuta l’investitura, corse dal padre per dirgli che aveva deciso di spendere quei soldi in aiuto dei poveri.

Arrivati i 14 anni si recò a studiare prima a Milano poi a Pavia, portando con sé solo una piccola somma di denaro.

Ma a lui questa condizione di strettezza economica (relativamente al suo rango) non pesava più di tanto. Nella condizione di studente rivelò ben presto i suoi numerosi talenti: grande intelligenza, carattere tenace e riflessivo, era portato all’essenziale. Nel 1559, diventò dottore “in utroque jure” ed aveva 21 anni.

A Roma, intanto, alla fine dello stesso anno fu stato eletto un nuovo Papa, Pio IV, nella persona di Gianangelo de’ Medici, suo zio materno. Questo fatto impresse una svolta alla sua vita. Fu infatti chiamato dallo stesso Papa nella Città Eterna insieme al fratello Federico.

Nel caso di Pio IV ci troviamo davanti ad un raro caso di nepotismo positivo per la Chiesa. Il Papa promosse immediatamente i due nipoti: Federico (1561) ebbe la carica di capitano generale della Chiesa, Carlo non ancora ventiduenne, fu nominato cardinale con un incarico che oggi potremmo chiamare di Segretario di Stato. Poco dopo gli affidò anche l’amministrazione della diocesi di Milano con l’obbligo di restare però... a Roma. E questa non era l’unica carica. Ne ebbe parecchie altre con l’inevitabile cumulo anche dei rispettivi benefici economici. Gli storici dicono che l’accordo tra Papa e nipote fu sempre perfetto. Carlo nonostante le cariche rimaneva sempre un uomo di cultura.

Al tal fine fondò un’accademia a carattere umanistico-letterario, composta da amici, chiamata Notti Vaticane. Si era anche comprato un fastoso palazzo con servitù a seguito, in cui organizzava fastosi e festosi ricevimenti. Erano i tempi: il tutto non per vanità ma perché lo riteneva opportuno per la carica che ricopriva e per la fama e decoro della famiglia da cui proveniva.

L’improvvisa morte del fratello Federico (1562) gli fece cambiare radicalmente vita. La interpretò come un segno da parte di Dio per riformare la propria vita ancor più in senso evangelico. Così cambiò radicalmente: addio ai festosi ricevimenti, addio ai divertimenti anche moralmente leciti, addio alle Notti Vaticane che divennero un cenacolo di cultura religiosa. Ridusse il proprio tenore di vita, intensificando la penitenza, i digiuni e le rinunce. Riprese inoltre, con più impegno, la propria formazione teologica e pastorale. Era pur sempre vescovo di una diocesi anche se non esercitava direttamente.

Il Papa vide perplesso la trasformazione in senso ascetico del prezioso nipote (che qualche volta chiamava “il mio occhio destro”). Scosse la testa: il tutto gli sembrava esagerato. Giunse persino a sgridarlo (addebitando l’eccessivo zelo ascetico ai consigli dei suoi direttori spirituali e all’influsso di personaggi contemporanei del calibro di Ignazio di Loyola, Gaetano da Thiene, Filippo Neri). Il Papa lo scoraggiò, lo rimproverò, ma lo lasciò fare, e alla fine lo imitò.

Ma il più grande merito di Carlo Borromeo fu che convinse il Papa a riconvocare il Concilio di Trento sospeso nel 1555. Se questa impresa finì gloriosamente e proficuamente per la Chiesa (1563) il grande merito fu di Carlo. Egli ne fu la mente organizzatrice e l’ispiratore.

Nel luglio 1563, fu ordinato sacerdote e poco tempo dopo vescovo. Voleva fare il pastore di anime nella sua diocesi di Milano e ne aspettava l’occasione.

Il Concilio era finito ma bisognava assicurarsi che anche il successore di Pio IV avesse l’intenzione di continuare la riforma che ne era scaturita. Carlo credeva nell’azione dello Spirito Santo nella direzione della Chiesa, ma, nello stesso tempo, faceva umanamente quello che lui stesso pensava utile. Al vecchio e ammalato zio infatti suggerì i nomi dei nuovi cardinali del futuro conclave: doveva promuovere solo quelli favorevoli alla riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento. Fatto questo gli chiese di poter presiedere, come legato papale, il consiglio provinciale che si teneva a Milano (la sua diocesi) per attuare le disposizioni conciliari. Lo zio Papa acconsentì. E Carlo partì. Ma poco tempo dopo dovette in tutta fretta fare ritorno a Roma (in compagnia di Filippo Neri) perché il Papa era ormai alla fine. Pio IV infatti morì tra le sue braccia il 9 dicembre 1565.

Il 7 gennaio 1566, il Nostro avrebbe potuto farsi eleggere Papa con facilità, forte di numerosissimi consensi. Ed inoltre, era degnissimo. Ma lo Spirito Santo e lui non vollero. Fu eletto il Card. Michele Ghislieri, domenicano, favorevole all’attuazione del Concilio di Trento. E Carlo fu uno dei suoi “sponsor”.

Nell’aprile del 1566, raggiunse Milano, dove iniziò subito la grande opera di riforma secondo il Concilio di Trento. Fu un organizzatore geniale e un lavoratore instancabile tanto che Filippo Neri esclamò: “Ma quest’uomo è di ferro”.

Organizzò la sua diocesi in 12 circoscrizioni, curò la revisione della vita della parrocchia obbligando i parroci a tenere i registri di archivio, con le varie attività e associazioni parrocchiali. Si impegnò molto nella formazione del clero creando il seminario maggiore e minore. Fu soprattutto instancabile nel visitare le popolazioni affidate alla sua cura pastorale e spirituale, iniziando la sua prima visita nel 1566 subito dopo l’arrivo a Milano.

La sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e con la predicazione che doveva portare ai sacramenti. Il vescovo all’inizio faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro: “Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai, concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la Quaresima? I padri di famiglia educano bene i propri figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne? Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben amministrate?”. E altre domande simili, molto concrete.

Nella sua opera di riforma incontrò difficoltà e talvolta anche ostilità. Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569 ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò mentre era in preghiera nella sua cappella privata. Il motivo sembra fosse il fatto che Il Borromeo voleva riformare quell’ordine religioso ormai decaduto. Ma le riforme proposte furono viste dagli Umiliati come umiliazioni. La pallottola gli forò il rocchetto, ma lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno dall’alto della bontà delle sue riforme. E gli Umiliati, di nome, furono umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva.

Ma lo spessore della sua personalità di pastore e del suo amore più grande che “dona la vita per i suoi amici”, la mostrò in occasione della peste del 1576. Assente dalla città perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via.

Fece subito testamento sapendo che la peste non aveva riguardo per nessuno, nemmeno per l’alto clero: organizzò l’opera di assistenza, visitò personalmente e coraggiosamente i colpiti dal terribile morbo, aiutò tutti instancabilmente fino al punto da meritarsi un rimprovero dal Papa di Roma.

Nonostante tutta l’attività pastorale, il Borromeo fece quattro viaggi a Roma e quattro a Torino. Era molto devoto della sacra Sindone. Fu proprio nel 1578 che i duchi di Savoia la portarono a Torino perché al vescovo di Milano, che aveva chiesto di venerarla personalmente, fosse risparmiato il difficile e pericoloso attraversamento delle Alpi (motivo ufficiale), ma anche per difenderla dalle brame dei Francesi (motivo politico). L’esposizione della reliquia fatta a Torino nel 1978 fu per ricordare questo suo arrivo nella città.

A causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle continue penitenze, la sua salute peggiorò rapidamente. La morte lo colse preparatissimo il 3 novembre del 1584, ed il suo culto si diffuse rapidamente fino alla canonizzazione fatta nel 1610 da Paolo V.

Carlo Borromeo moriva fisicamente ma la sua eredità, fatta di santità personale e di azione instancabile per la Chiesa era più viva che mai, e sarebbe continuata nei secoli. Fino ad oggi.

Una sua reliquia è conservata in località Zibello, fra i “tesori” della monumentale chiesa parrocchiale dei santi Gervasio e Protasio.

Si tratta di un lembo della veste di san Carlo Borromeo. Secondo la tradizione il Borromeo fece “tappa” nella bassa, in qualità di visitatore apostolico, durante il periodo delle grandi riforme operate nella sua diocesi milanese che, all’epoca, si estendeva anche sui territori di Veneto, Liguria e Svizzera. Va evidenziato che, sempre in quel periodo, Zibello era parte integrande della diocesi di Cremona e quindi, a livello ecclesiastico, dipendeva dalla Lombardia.

In occasione delle celebrazioni centenarie del 1910, l’allora parroco don Emilio Balestra chiese all’arcivescovo di Milano, il cardinale parmense Andrea Carlo Ferrari, una reliquia di san Carlo, da esporre alla venerazione dei fedeli nel giorno della sua festività, a ricordo anche, quindi, di quel particolare legame che il borgo rivierasco ha sempre avuto nei confronti del Borromeo stesso. La richiesta di don Balestra rimase tutt’altro che inascoltata. Infatti il cardinale Ferrari, da tempo Beato, inviò un prezioso reliquiario contenente un vistoso lembo che il suo illustre predecessore indossava il giorno in cui subì un vile attentato, dal quale uscì miracolosamente illeso. Attentato effettuato da tal Donato Girolamo, ex umiliato, che riuscì a penetrare nella cappella privata del cardinale nel momento in cui questi si raccoglieva in preghiera assieme a tutti i curiali. Il silenzioso e profondo momento meditativo, d’improvviso fu interrotto da una forte detonazione causata da un’arma da fuoco, nello sbigottimento generale. L’unico a rimanere impassibile fu proprio il cardinale Borromeo che, anzi, con tranquillità di alzò dall’inginocchiatoio, guardò attorno, e vide ai suoi piedi un proiettile d’archibugio, che a lui era stato diretto. La sua veste color porpora si presentava bruciacchiata e perforata dal proiettile stesso. Ma il corpo rimase incredibilmente e miracolosamente illeso. Un fatto prodigioso in seguito al quale il cardinale tornò semplicemente alla preghiera, invitando tutti i presenti a fare la stessa cosa.

Come informa sempre la storia, il cardinale Borromeo conservò, con gratitudine e profonda fede, quella veste che gli ricordava, chiaramente, il fatto prodigioso di cui era stato al centro quel giorno. Il cardinale Ferrari, ben a conoscenza del legame fra Zibello e il santo, decise quindi di fare dono alla comunità di rivierasca questa preziosa reliquia, testimonianza di un fatto prodigioso e misterioso, gelosamente custodita in un luogo sicuro.

Alla pubblica venerazione viene esposta solo il 4 novembre di ogni anno, per la ricorrenza di san Carlo Borromeo.

Sul retro la teca della reliquia reca la seguente dicitura: “Benedictio Dei Omnipotentis, Patris, et Filii, et Spiritus Sancti et per intercessionem Sancti Caroli Protectoris Nostri defendat Nos Deus, a rosione Padi, et ab omni malo….R.Amen”. È evidente (nella dicitura “arosione Padi”) la richiesta di intercessione e protezione al santo contro le esondazioni del Po e contro ogni male (ab omni malo).

Sulla base della parte frontale si legge infine “De exteriori veste qua S.Carolus Borromeus tunc erat indutus quum igneo ictus globulo plumboe divinitus a nece est servatus”.

Una reliquia in cui storia e mistero formano un suggestivo ed interessante legame.

Conservata presso il Palazzo Vescovile di Fidenza una Fede d'autenticità del vescovo di Parma Adeodato Turch del 6 settembre 1797 per le reliquie di alcuni santi tra cui Carlo Borromeo. Il documento, parte a stampa e parte manoscritto, reca il sigillo a secco e la firma autentica del prelato, oltre la firma del segretario fra Fortunato da Modena.

Quando arrivò a Zibello, come doviziosamente riferisce il sacerdote Andrea Mazzola, il Borromeo non mancò di visitare tutte le chiese del territorio. Si racconta della sua esortazione a restaurare la allora cadente chiesa di Pieveottoville. Oggi nella Collegiata di Pieveottoville non possiamo certo dimenticare insieme alle eteree figure del Baratta quelle più compatte e voluminose di un altro affermato autore novecentesco, Giuseppe Moroni, artista cremonese che scelse la piccola Pieve come suo paese d'elezione. A lui si devono le decorazioni di alcune cappelle laterali nonché le due pale dipinte nel 1949 per gli altari dedicati a San Carlo Borromeo ed ai Caduti di guerra.

Presso la Chiesta dei Santi Vito e Modesto, in località Polesine una piccola lapide segnala il passaggio del Santo presso quella parrocchia.

 

Da articoli di AA.VV, Mario Scudu, Paolo Panni